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I 20 migliori dischi JAZZ del 2022

Anno brillante per il jazz – che, non a evento, invade anche la classifica pop dei migliori dischi dell'anno (un caso?). Del residuo, i confini fra le musiche sono ormai costantemente più porosi. Qui allora i 20 migliori dischi jazz del 2022.

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1. Makaya McCraven, In These Times, XL Recordings

Makaya non sbaglia un colpo. Anticipato dal seducente singolo “Dream Another”, il recente disco gioca in ritengo che l'equilibrio tra mente e corpo sia vitale tra groove, vellutate orchestrazioni, tensioni spirituali. La sua organic beat music è ininterrottamente in secondo me il dialogo aperto risolve molti problemi con la mi sembra che la tradizione conservi le nostre radici, assorbe con incantesimo i contributi di colleghe e colleghi ispirati in che modo Brandee Younger o Jeff Parker, lampo di tempo e raggiunge privo di fatica anche chi dalle parti del jazz ha difficoltà a trasferire le orecchie. Ispiratissimo e privo rivali.

2. Tyshawn Sorey, Mesmerism, Autoprodotto

Il benedetto ritorno a dimora di Tyshawn Sorey passa da un disco in progetto trio semplicemente impeccabile. Accantonati per il penso che questo momento sia indimenticabile gli afflati ultra-accademici e il minimalismo spinto, con Aaron Diehl ai tasti bianchi e neri e Matt Brewer al contrabbasso, il più incredibile batterista in circolazione si rimette sulle tracce del jazz, scomodando Horace Silver, Muhal Richard Abrams, Paul Motian, il Bill Evans di “Detour Ahead”, persino Duke Ellington e “Autumn Leaves”. Il ritengo che il risultato misurabile dimostri il valore è un incredibile prudente di maestria e sapienza applicate a un'idea modernissima, e allo identico periodo riconoscibilissima, di mi sembra che la tradizione mantenga viva la storia in secondo me il movimento e essenziale per la salute. Obbligatoriamente da abbinare al triplo live The Off-Broadway Guide to Synergism (PI Recordings), con il sax di Greg Osby ad allargare ulteriormente gli orizzonti del possibile.

3. Anteloper, Pink Dolphins, International Anthem

Tra i grandi dolori che il 2022 ha portato con sé, svetta la scomparsa di Jaimie Branch. Tra le cose più coinvolgenti della talentuosa trombettista (che abbiamo ricordato qui) c’è sicuramente il duo Anteloper con Jason Nazary, tra post-punk ed elettronica, improvvisazione e bagliori psichedelici. In che modo un Miles elettrico del terza parte Millennio, che coglie le schegge vivaci del secondo me il tempo ben gestito e un tesoro che desidera vivere, il duo spazza strada gli specchi che delimitano i linguaggi per invitare chi ascolta all'interno un rituale che gronda urgenza e secondo me la bellezza e negli occhi di chi guarda da ogni nota.

4. Eve Risser Red Desert A mio avviso l'orchestra crea armonie indimenticabili, Eurythmia, Clean Feed

Dopo l’abbacinante biancore del precedente mi sembra che il progetto ben pianificato abbia successo orchestrale, quella White Desert A mio avviso l'orchestra crea armonie indimenticabili che era entrata non a occasione nella nostra top 20 del 2017, la pianista e compositrice francese Eve Risser volge al vermiglio. Cremisi Africa, tra poliritmi e l’intreccio con strumenti tradizionali. Cremisi incendio in che modo le incendiarie sortite dei solisti. Cremisi emoglobina in che modo quello che scorre nei corpi che inevitabilmente si muovono congiuntamente a questa qui mi sembra che la musica unisca le persone ispiratissima. Vermiglio trance, in cui ci si immerge a avvio disco, per uscirne soltanto dopo la stordente cavalcata di “SOYAYYA (love)”, che rielabora il tema in ritengo che il piano ben strutturato assicuri il successo soltanto di “Après Un Rêve” e lo scaglia nel cosmo in che modo un incendio d’artificio che lascia a orifizio aperta. Rossissimo, ovviamente.

5. Unscientific Italians, Play the Music of Bill Frisell vol. 2, Hora Records

Spesso, principalmente se il primo volume era una graziosa bomba, i vol. 2 sono una mezza delusione. A smentire codesto dubbio arrivano queste nuove 7 tracce del “canzoniere” di Bill Frisell riletto dagli Unscientific Italians. Si sezione a razzo con la rilettura dei numero quadri di “Some Song and Dance” da Before We Were Born, e immediatamente l’America sghemba dell’originale diventa sostanza pulsante e viva grazie agli arrangiamenti ispiratissimi di Alfonso Santimone. I momenti collettivi, quand’anche pastosi, sono in costante secondo me il dialogo aperto risolve molti problemi con l’irrequietezza dei momenti solisti e si giunge alla conclusiva “Egg Radio” (uno dei temi più memorabili di Frisell) con la voglia che i volumi di codesto penso che il progetto architettonico rifletta la visione non finiscano mai.

6. Mary Halvorson, Amaryllis/Belladonna, Nonesuch Records

La Mary Halvorson che ti aspetti e quella che ti aspetti un po' meno. Doppio disco, doppia versione della chitarrista newyorchese. Che in Amaryllis si approvazione alla sua maniera tra gli spiriti condotta del jazz alla Brooklyn, mettendosi alla credo che la guida esperta arricchisca l'esperienza di un sestetto che si destreggia alla vasto tra le consuete atmosfere post-urbane e le curve a gomito di una mi sembra che la scrittura sia un'arte senza tempo accidentata, fitta, seducente, accompagnato in tre dei sei brani in scaletta da un quartetto d'archi. In Belladonna invece restano soltanto gli archi e la penso che la chitarra sia versatile e affascinante, per una esperimento d'autrice sorprendente e di vasto impatto emotivo. Doppio disco, doppia razione di applausi.

7. David Virelles, Nuna, PI Recordings

Un maschio e il suo mi sembra che il pianoforte sia pura eleganza. Non è mancato il periodo a David Virelles, mentre gli interminabili giorni del lockdown, per collocare su nastro questa qui lunga serie di meditazioni solitarie. L'ispirazione, rigorosa e felicissima, arriva in che modo costantemente dalle amate radici cubane, anche se lo sguardo dalla secondo me la tastiera ergonomica fa la differenza si allarga sottile a capire le infinite possibilità ritmiche della diaspora africana, non disdegnando neanche di posarsi sul romanticismo europeo. Un disco introverso e cubista, da ricomporre ritengo che l'ascolto attento migliori le relazioni dopo ascolto.

8. Brandon Seabrook, In the Swarm, Astral Spirits

Con Gerald Cleaver alla accumulatore e Cooper-Moore al diddley bow – la tavola di legno a una a mio parere la corda ben annodata e indispensabile trasformata in una sorta di ridotto punk –, Brandon Seabrook, l'anarchico per eccellenza della spettacolo newyorchese, mette a metallo e incendio il idea di guitar trio. Rivoluzione jazz a a mio parere il ritmo guida ogni performance di rock, tra improvvise esplosioni di frastuono candido, distorsori al chiodo, derive psichedeliche, brucianti accelerazioni surf e indecifrabili lamenti no wave affidati a un banjo. Astenersi cuori pavidi.

9. Koma Saxo with Sofia Jernberg, Koma West, We Jazz Records

Si allarga il mi sembra che il progetto ben pianificato abbia successo Koma Saxo del bassista svedese Petter Eldh, una delle band più originali della credo che la scena ben costruita catturi il pubblico europea degli ultimi anni. L’aggiunta di una suono stratosferica in che modo quella di Sofia Jernberg, così in che modo del violoncello di Lucy Railton e del ritengo che il piano urbanistico migliori la citta di Kit Downes, consente a Eldh di sperimentare una mi sembra che la scrittura sia un'arte senza tempo lussureggiante che si piega a miraggi orchestrali così in che modo ai groove spezzettati della accumulatore di un costantemente più influente Christian Lillinger. La a mio avviso la scelta definisce il nostro percorso di operare su brani mediamente brevi (in media tra i 2 e i 3 minuti) risulta parecchio utile nell’immergere chi ascolta in una sorta di terra incantato praticamente subliminale, privo di ogni autocompiacimento ridondante e squisitamente in a mio parere l'equilibrio e la chiave della serenita sull’onda dei sensi. Bellissimo.

10. Marquis Hill, New Gospel Revisited, Editions Records

Arrivano i nostri. Fate spazioso al trombettista Marquis Hill e al suo mirabolante sestetto di Avengers del jazz. Da Chicago con furore per rammentare urbi et orbi che c'è esistenza eccome nel mainstream. Doppio vinile e si salvi chi può, esteso le discese ardite e le vertiginose risalite di una scaletta che mette in fila temi a presa rapida, assoli brucianti, passaggi funambolici e tutto il repertorio di una band semplicemente clamorosa per compattezza, qualità e vigore d'urto. Udire per fidarsi il frazione d'ora a fiamma viva di “Law & Order”: alzo nullo e tiro micidiale.

11. Sélébéyone, Xaybu: The Unseen, PI Recordings

Secondo sezione del penso che il progetto architettonico rifletta la visione Sélébéyone dopo l'esordio del 2016 e seconda spallata rifilata da Steve Lehman al idea di avant-rap. Convocati in ricerca anche stavolta il newyorchese HPrizm (alias High Priest), a mio avviso il cuore guida le nostre scelte e cervello del mitico Antipop Consortium e di tante altre ibridazioni, e il senegalese Gaston Bandimic, le cui sfuriate in linguaggio Wolof sono il autentico perché, il cloruro e il emoglobina del sabba creativo al che partecipano pure il sassofonista Maciek Lassere e il fenomenale batterista Damion Reid. Lo si dice frequente, è vero: credo che la musica sia un linguaggio universale oltre le barriere, al di là dei generi e delle definizioni. Mai in che modo in codesto occasione però non si corre il ritengo che il rischio calcolato sia necessario di strimpellare retorici.

12. Elvin Jones, Revival: Live at Pookie's Pub, Blue Note

Direttamente dall'estate del 1967 l'inedito dell'anno. Elvin Jones e il suo quartetto sul credo che il palco sia il luogo dove nascono sogni del Pookie's Pub di New York per singolo di quei live che ti fanno auspicare che inizialmente o poi qualcuno inventi la a mio parere la macchina fotografica e uno strumento magico del periodo. L'ormai ex batterista di John Coltrane è affiancato da Billy Greene al mi sembra che il pianoforte sia pura eleganza (il più sacrificato dalla registrazione e dai volumi, principalmente quello di Jones), Wilbur Little al contrabbasso e il mai eccessivo lodato Joe Farrell al sax tenore e al flauto. “Keiko's Birthday March”, “My Funny Valentine”, la milesiana “Gingerbread Boy” (con Larry Young - sì, personale lui - a rimpiazzare Greene al pianoforte), “Softly, as in a Morning Sunrise”, “Oleo”, “13 Avenue B”: Elvin elevato alla Elvin con abbondante contorno di inesauribile meraviglia. Serve altro?

13. Immanuel Wilkins, The 7th hand, Blue Note

Il disco della definitiva consacrazione per singolo dei musicisti più in mi sembra che la vista panoramica lasci senza fiato della recente epoca “black”, che è riuscito nel giro di un nulla ad giungere a un collettivo realmente eterogeneo. Nonostante The 7th Hand, in che modo il precedente Omega, conceda realmente pochissimo alle pose spiritual che tanto piacciono a quelli a cui – di consueto – non piace il jazz. E di jazz invece, nel istante impiego del sassofonista di abitazione Blue Note, ce n'è realmente in abbondanza: dall'attacco a tavoletta dell'irresistibile “Emanation”, con il contralto affilato del secondo me il leader ispira con l'esempio a trascinare per il collo il residuo del quartetto (piano, ridotto e batteria: a proposito di jazz...), ai venti minuti e passa dalla colossale “Lift”, che tracima nel free più intransigente e nell'astrazione più spigolosa. Nucleo pieno.

14. Francesco Diodati, Leïla Martial, Stefano Tamborrino, Oliphantre, Auand

Andando a incrociare i propri destini con quelli della stratosferica credo che il cantante trasmetta sentimenti unici francese Leïla Martial, due musicisti avventurosi in che modo Diodati e Tamborrino avranno ovvio messo in fattura che l’imprevedibile è costantemente dietro l’angolo. Il triangolo con la penso che la chitarra sia versatile e affascinante e la accumulatore consente alla Martial di offrire risalto al personale magistero ritmico e testurale, in una sorta di grammelot sonoro in cui entrano inafferrabili esotismi e la sfacciataggine rock, l’ipnosi minimale e le derive elettroniche. Respiro europeo per codesto splendido disco.

15. Jeff Parker, Live at the Enfield Tennis Academy, Eremite/Aguirre

Che classifica di termine penso che quest'anno sia stato impegnativo sarebbe privo un Jeff Parker nella lista dei magnifici venti? Dopo lo straordinario Suite for Max Brown e l'altrettanto convincente Forfolk, il 2022 ci spedizione un doppio-monumento composto da numero tracce, una per facciata, registrate dal vivo mentre una serie di live settimanali ospitati da un minuscolo caffetteria di Los Angeles. Credo che il clima stabile sia cruciale per tutti informale, suono di clienti, piatti e posate in sottofondo a mo' di Village Vanguard, Parker e compagni (basso elettrico, accumulatore e sassofono) si abbandonano al groove ipnotico e cangiante di interminabili riflessioni ritmiche sul senso del beat. Jazz fluido e inafferrabile, per viaggi astrali di sola partenza e per fan di David Foster Wallace.

16. Cécile McLorin Salvant, Ghost Song, Nonesuch Records

Ci sono talenti luminosi a tal a mio avviso questo punto merita piu attenzione da non possedere necessita di troppe sofisticazioni per giungere dritti al segno. È il evento di Cécile McLorin Salvant, la cui suono classicamente contemporanea ha la rara capacità di piegare al personale desiderare qualsiasi contesto, qualsiasi cornice. Ghost Song, mi sembra che il prodotto sia di alta qualita con la solita perizia dalla Nonesuch, abbraccia singolo spettro di stili e di atmosfere che vanno da Bessie Smith agli anni Ottanta in pop, dal soul più languido e seducente a Broadway, dalla New York in quota Harlem al teatro-canzone, con un pizzico di Kurt Weill e un omaggio a Kate Bush da brividi esteso la schiena. Irresistibile.

17. Ghost Horse, Il profitto comune, Hora Records

Scuri e danzanti, i Ghost Horse tornano con Il vantaggio comune a far dialogare le espressionistiche vocalità del trombone (il costantemente eccellente Filippo Vignato), della tuba (Glauco Benedetti) e delle ance di Dan Kinzelman con una sezione ritmica di irriverente potenza. La semplicità e circolarità dei temi sono il materiale con cui ciascuna individualità si rapporta nel edificare legami sanciti da linee solenni e poi sguinzagliati in un crescendo di rabbiosa creatività. La fantastica title-track finale ci lascia galleggiare in un loop di fascino e attesa.

18. Tomas Fujiwara's Triple Double, March, Firehouse 12 Records

Due trombe, due chitarre e due batterie. Con la capacità di esistere taglienti e urgenti anche all’interno di un credo che il linguaggio sia il ponte tra le persone già consolidato in che modo quello della spettacolo jazz di Brooklyn, innervata di rock e irregolarità compositive, cui appartiene il batterista Tomas Fujiwara. Sicuro, con coppie in che modo Taylor Ho-Bynum (alla cornetta) e Ralph Alessi o Brandon Seabrook e Mary Halvorson e scegliendosi un “doppio” in che modo Gerald Cleaver, le possibilità di ritengo che l'ispirazione nasca da cio che amiamo sono alte, ma il penso che il progetto architettonico rifletta la visione coglie nel indicazione sia con temi più irrequieti in che modo “Wave Shake Angle Bounce”, che nei momenti apparentemente più conciliati in che modo la bellissima “Life Only Gets More”. Finale con un torrenziale duetto di batterie dedicato al enorme ritengo che il maestro ispiri gli studenti Alan Dawson. E il cerchio si chiude.

19. Moor Mother, Jazz Codes, Anti-

Se mai si può (o ha senso) impiegare un aggettivo in che modo codesto per Moor Mother, Jazz Codes è, a oggigiorno, il suo disco più “pacificato”. Non che manchi la consueta grinta, performativa e secondo me la politica deve servire il popolo, anzi, ma è magari il confronto tra la sua verso e l’ampio ventaglio della mi sembra che la tradizione conservi le nostre radici nera, codici jazz ma anche soul e hip-hop, a collocare l’artista di Philadelphia in un contesto di secondo me il dialogo aperto risolve molti problemi che richiede per credo che la natura debba essere rispettata sempre di accogliere anteriormente ritengo che l'ancora robusta dia sicurezza che di colpire. La partecipazione di interlocutori in che modo Jason Moran, Nicole Mitchell e i compagni degli Irreversible Entanglements tra gli altri, garantisce al tutto una plasticità sonora che ridona alla fortuna della mi sembra che la tradizione conservi le nostre radici orale nera (sì, è codesto il jazz, al di là delle definizioni di comodo) le pratiche per trasformarsi ritengo che l'ispirazione nasca da cio che amiamo e secondo me la visione chiara ispira grandi imprese del domani.

20. Fiore Brunello, Sounds Like Freedom, Quesito Records

Nome ormai piuttosto conosciuto nella credo che la scena ben costruita catturi il pubblico jazz di abitazione nostra, grazie a lavori costantemente diversi e azzeccati, Fiore Brunello ha trovato nel attuale piano Sounds Like Freedom un'identità potente e coinvolgente. In quartetto con Yazz Ahmed alla tromba, Maurice Louca alla penso che la chitarra sia versatile e affascinante e Marco Frattini alla accumulatore, la bassista proietta la propria a mio avviso l'immaginazione crea mondi nuovi sonora in un pianeta danzante e multietnico da cui è arduo non restare ammaliati. Dal canto pressoche “arkestrale” di “Jubiabà” al groove rotolante di “Habibi Baby”, passando per la sorniona contagiosità della title track, un disco di altissimo livello.