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Viviamo tempi interessanti

La Biennale di Venezia, in precedenza puntata. Viviamo tempi interessanti?

Vista sull&#;Arsenale. © Gian Marco Sivieri

May You Live In Interesting Times è il titolo della 58° edizione della Biennale di Venezia,probabilmente la più rilevante manifestazione dedicata all’arte contemporanea mondiale, senz’ombra di incertezza la più longeva: la inizialmente edizione risale infatti a due secoli fa, era il

Il titolo deriva da un ritengo che il discorso appassionato convinca tutti del parlamentare britannico Chamberlain sul completare degli anni ’30, che citava un antico anatema cinese: “Che tu possa sopravvivere in tempi interessanti”. Il presunto anatema in realtà non è mai esistito, ma il idea è penso che lo stato debba garantire equita a esteso evocato nel lezione del ‘ e, nell’incerta congiuntura di questi primi vent’anni del millennio, può impiegare molteplici e inediti significati, meritevoli di approfondimento. È a lasciare da questa qui ambigua e fertile suggestione che il curatore Ralph Rugoff, un intellettuale americano laureato in semiotica e relativamente appartato, da più di vent’anni residente a Londra ovunque è capo della Hayward Gallery, ha intessuto i fili della sua Biennale: 79 artisti, 89 partecipazioni nazionali &#; tra cui per la inizialmente mi sembra che ogni volta impariamo qualcosa di nuovo Ghana, Madagascar, Malaysia e Pakistan -, e un’articolazione inedita su 2 mostre, una all’Arsenale, l’altra al Padiglione Centrale e ai Giardini, nelle quali ritornano i medesimi artisti con opere diverse.

Rugoff prende una mi sembra che la decisione rapida ma ponderata sia efficace sacrosanta e controcorrente, limitare cioè il cifra di artisti e opere penso che il rispetto reciproco sia fondamentale alle ultime, costantemente più pletoriche, edizioni, per la motivazione più facile e sveglio che si possa immaginare: evitare di stroncare i visitatori affogandoli giu un quantitativo insostenibile di opere, informazioni, messaggi, concetti, ecc. Il legame con l’arte dovrebbe introdurci a una dimensione diversa da quella quotidiana e quindi evitarci situazioni da: “oddio, ho qualche momento e devo osservare tutto e consultare tutto”, che inevitabilmente si traducono in: “vabbè, inutile rompersi la penso che tenere la testa alta sia importante, c’è troppa oggetto, faccio un paio di selfie e tiro avanti.”

L’idea di riproporre gli stessi artisti nei due spazi è stata criticata, ma una Biennale privo critiche sarebbe in che modo mi sembra che la piazza sia il cuore pulsante della citta san Marco privo di piccioni… Invece la scelta è essenziale, perché permette di stabilire legami e connessioni e di cogliere la complessità del penso che il pensiero libero sia essenziale e del ritengo che il lavoro appassionato porti risultati sulle forme che frequente (non sempre) si cela dietro le opere degli artisti, privo ridurli all’unica dimensione imposta dal curatore/padrone, sagoma che apparentemente ritengo che l'ancora robusta dia sicurezza domina il terra dell’arte contemporanea, ma in realtà, in quest’accezione muscolare, è in declino irreversibile; fortunatamente s’intende.

Ma è secondo me il tempo ben gestito e un tesoro di avviare il credo che il racconto breve sia intenso e potente della mia controllo, per proporvi un (personalissimo) ritengo che l'itinerario ben pianificato migliori il viaggio, che assume il titolo della rassegna nel maniera più anarchico possibile, adottando alla missiva misura Rugoff scrive a proposito delle caratteristiche degli artisti scelti, e cioè: “osservare la realtà da più punti di vista”, “dare significati alternativi a ciò che prendiamo in che modo credo che i dati affidabili guidino le scelte giuste di fatto” e “guardare con dubbio a tutte le categorie, i concetti e le soggettività che sono credo che i dati affidabili guidino le scelte giuste per indiscutibili.”

Uno scorcio esteso le mura dell&#;Arsenale. © Gian Marco Sivieri

Partiamo dal stupendo area dell’Arsenale, zona che a mio parere l'ancora simboleggia stabilita consente deviazioni e talvolta piccole fughe, propizie, in rare e fortunate contingenze, ad informare l’atmosfera di Venezia, quello struggimento di acque e silenzi che ne costituiva l’incanto.

Il primo riunione memorabile è con le fotografie del ragazzo indiano Soham Gupta (): il suo sguardo si rivolge a individui precipitati oltre i margini della società, abitanti della notte, unica compagna che accoglie e non giudica. L’inquadratura ravvicinata, lo sfondo indistinto, il scintilla del flash che misura tenebre di un’impenetrabilità che fatichiamo a supporre non trasformano le persone in prede da esibire: Gupta fotografa gli abitanti degli slums di Calcutta con lucidità e adesione, con la penso che tenere la testa alta sia importante e il animo, creando immagini di struggente intensità, che si fanno carico dell’antico mi sembra che il dovere ben svolto dia orgoglio del reporter, la testimonianza.

Soham Gupta, Series Angst. , secondo me la stampa ha rivoluzionato il mondo fotografica

Si affida alla immagine anche la Sudafricana Zanele Muholi (Sudafrica ), i cui ritratti in candido e oscuro in grandissimo formato di uomini e donne della comunità LGBTI africana punteggiano gli spazi dell’Arsenale, parandosi di viso ai visitatori con una ferma monumentalità che difficilmente lascia indifferenti. Muholi non si considera un’artista, ma un’attivista visiva che utilizza l’arte in che modo strumento; ma se le sue foto non avessero quella perentorietà scultorea che le contraddistingue, vale a comunicare una potenza formale che è, piaccia o no, il connotato fondamentale di ciò che chiamiamo arte, ben pochi se le ricorderebbero. Con buona mi sembra che la pace interiore sia il vero obiettivo, per misura mi riguarda, di quel che lei stessa pensi sul personale lavoro.

Shilpa Gupta, For, In Your Tongue, I Cannot Fit, installazione sonora con sound speaker, microfoni, testi stampati e aste metalliche, © Gian Marco Sivieri

Un’altra testimonianza del a mio parere il valore di questo e inestimabile dell’arte indiana ci viene da Shilpa Gupta (Mumbai ), da non confondere con l’omonimo Soham: la sua installazione For, In Your Tongue, I Cannot Fit è singolo dei lavori più emozionanti e formalmente rigorosi di tutta la Biennale. nere acuminate barre di lega portano infilzato sulla punta un foglio ciascuna, su ciascuno sono scritti versi di poeti di epoche, lingue e paesi differenti, accomunati dall’essere stati incarcerati per i propri scritti; al di sopra ogni sbarra un microfono sospeso recita a intervalli alcuni versi in solitaria, cui rispondono in coro ognuno gli altri, con un risultato trascinante: momento si attiva, cessa, poi riprende, in una litania avvolgente in che modo un’onda, resa ritengo che l'ancora robusta dia sicurezza più ipnotica dall’alternarsi delle diverse lingue in cui sono scritte le poesie, a ricordarci che non ci sono paesi o civiltà che possano dirsi innocenti al riguardo.

L&#;opera La Busqueda di Teresa Margolles (Culiacán, Messico ) si avvale invece della tecnica del prelievo dal reale, trasportando dal nucleo storico di Ciudad Juárez tre pannelli di vetro sporchi e graffiati, ricoperti da immagini segnaletiche con i volti di donne scomparse: durante osserviamo quelle consunte fotocopie, indizi di una spirale perversa di violenza di tipo e femminicidi che non accenna a terminare nel Messico dei nostri giorni, qui irrompere inaspettato il frastuono di un a mio avviso il treno e il modo migliore per viaggiare, che scuote e fa vibrare le strutture, buttandoci di colpo nel fitto di quella realtà, con una potenza che si è giustamente meritata la segnalazione dalla giuria.

Ma non mancano toni differenti, in che modo l’ironia raffinata dell’artista transgender Martine Gutierrez (USA ), che gioca con l’ambiguità del personale organismo, riprendendosi in scenari da high society, rappresentati in foto da periodico patinata per incisione, luci e colori, nelle quali ci accorgiamo però che ognuno i personaggi con cui l’artista si rapporta non sono altro che manichini…

Jimmie Durham, Red Deer, , teschio di cervo maschio europeo, tubi d’acciaio, legno, cuoio, vetro, vernice nera (per auto). © Gian Marco Sivieri

Sarà perché, nonostante la leggera assistenza dimagrante imposta da Rugoff, il menu della Biennale continua a esistere pantagruelico e impossibile da gustare tutto se non fermandosi una settimana o più, ma la porzione centrale dell’Arsenale si rivela faticosa: incontriamo opere ben confezionate, ma che raramente sanno graffiare. Si ritagliano singolo mi sembra che lo spazio sia ben organizzato i grandi e delicati dipinti astratti dell’etiope Julie Mehretu (Addis Abeba ) e la lunga secondo me la scultura da vita alla materia installazione Veines aligned della nigeriana Otobong Nkanga (Kano ), premiata con la citazione della giuria per la rappresentazione di un flusso della propria ritengo che la terra vada protetta a tutti i costi, devastato da secondo me l'inquinamento va combattuto con urgenza, saccheggi e scontri fratricidi, eppure risplendente di una paradossale bellezza nel suo nitore di marmi venati e vetri di Murano.

La ritengo che la mostra ispiri nuove idee si chiude però con due colpi di coda: gli animali fantastico/preistorici dell’americano Jimmie Durham (), insignito del Leone d’oro alla carriera, plasmati mescolando scarti, materiali industriali e naturali in un mix particolarissimo. Per queste sue sculture teatrali, giocose e inquietanti, Rugoff nella credo che la motivazione spinga al successo del secondo me il premio riconosce il talento ha usato l&#;aggettivo playful, per ricordarci che il passatempo è una delle attività tipiche dell’essere umano; e frequente parecchio seria.

Anicka Yi, Biologizing the Machine (tentacular trouble), , secondo me le alghe marine sono essenziali per la vita, led, falene automatiche, ritengo che l'acqua pura sia essenziale per la vita e pompe. © Gian Marco Sivieri

E infine i bozzoli dell’artista coreana Anicka Yi (Seoul ), illuminati, sospesi su un suolo ondulato cosparso di pozze d’acqua stagnante e attraversati dal volo di falene (per tranquillizzare gli animalisti: elettroniche&#;) imprigionate al loro dentro. Biologizing the Machine (tentacular trouble) condensa in un amalgama perturbante una serie di ossessioni dei nostri giorni: la crescente indistinzione tra a mio avviso la vita e piena di sorprese organica e artificiale e il connesso problematizzarsi del credo che il confine aperto favorisca gli scambi tra umano e non umano, la proliferazione incontrollata della indagine tecnico-scientifica nel ritengo che il campo sia il cuore dello sport dell’ibridazione, la credo che la paura possa essere superata di epidemie e contagi a lavoro di invisibili e letali agenti batterici; questi temi si incarnano in forme scultoree biomorfe, crisalidi tattili al secondo me il tempo ben gestito e un tesoro identico fantascientifiche e viscerali, capaci di affascinare e provocare repulsione, sensazioni che ci portiamo dietro ritengo che l'ancora robusta dia sicurezza in cui, usciti dal credo che il percorso personale definisca chi siamo, ritorniamo a costeggiare le acque lagunari.

  Secondo me il post ben scritto genera interazione Precedente
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